MTMag- Le buone maniere non abitano a Masterchef
E' l'argomento che ha tenuto banco la settimana scorsa, scaturito da un divertente articolo di Andrea Scanzi a cui ha replicato, in modo assai meno ironico e per nulla divertente, Luciano Pignataro, per il quale i metodi di Cracco &Co. presentano sorprendenti ed allarmanti analogie col neonazismo. Da qui in poi, è stato un tale susseguirsi di "seguirà dibattito" da far crollare il fermo proposito dei mesi scorsi ("niente XFactor e niente MC per il prossimo anno") e a farmi tornare in argomento- poco poco/piano piano....
Punto uno: è la TV, bellezza. Chi crede che MC sia una scuola di cucina... anzi no, cambio tono: chi crede che MC sia una scuola di cucina? Forse, ci si sarebbe potuti cadere l'anno scorso, quando l'occhio vergine ed inesperto intercettava per la prima volta lo sguardo in tralice di Carlo Cracco o si posava sulle generose grazie della Luisona: ma ora, nessun equivoco di sorta. E' pura televisione, con tutto quello che questa definizione comporta, a cominciare dalla tirannia dello spettacolo che è il vero motore del programma: selezione dei candidati, scelta delle prove, siparietti montati ad arte, giudici sempre più compresi nei loro personaggi, tutto trasuda finzione dal primo all'ultimo fotogramma. Ergersi a paladini di Maria Montessori è come scandalizzarsi per le sonore scazzottate ai tempi di Bud Spencer & Terence Hill: se non ci fossero state, al tempi, avremmo preteso il rimborso del biglietto. Forse che eravamo tutti dei piccoli neonazi in erba-e non ce ne siamo accorti?
Punto due: è la cucina, bellezza. "Voglio fare lo chef" è il ritornello che fa da sottofondo al programma, la risposta meccanica che tutti i concorrenti danno quando si ripropone il "che ci faccio qui?". In realtà, non è così vero. Se vuoi fare lo chef, ti iscrivi all'alberghiero. E se per qualche impedimento non puoi farlo, se proprio la passione entro ti rugge, non perdi occasione per realizzare il tuo sogno: piuttosto, vai a lavar piatti, ma in cucina ci stai. Invece, tolta qualche rarissima eccezione, ogni giovedì sera ci tocca assistere alla solita sfilata di fighetti meno uno, pronti ad intonare la litania di cui sopra. A cui bisognerebbe aggiungere il controcanto "senza fare la gavetta": perchè questo è il secondo punto della questione. E' dai tempi di questo libro qui che nessuno si fa più illusioni sulla rudezza di questo ambiente. "Fare lo chef" non significa tanto saper cucinare, quanto, semmai, mantenere intatte le proprie abilità e raffinarle, nonostante il contorno: che oggi è costituito dalle prese in giro della brigata, domani dalla scuffiata dello chef , dopodomani dalle scenate del cliente e via dicendo, in una catena incessante di turni lavorativi che non conoscono soste: perché qui, di Rosselle o'Hara, non ce ne sono: domani non è un altro giorno, ma sempre lo stesso.
Punto tre: è la vita, bellezza. Sentite un po': devo condannarmi a un'esistenza di solitudine o qualcun altro, oltre a me, qualche rimprovero solenne se lo è preso? E non parlo delle quattro mura domestiche (anzi: lì, è sempre stato un idillio), quanto di quello che è accaduto fuori. Per mesi, all'università, sono stato oggetto di pubblico e meritato ludibrio, a causa di un errore clamoroso ad un esame che aveva traasformato il già irritabile professore in un concentrato delle tre Erinni. Al posto dei piatti, eran volati libri, ma il concetto era arrivato lo stesso, forte e chiaro. E se quella volta avevo torto marcio, ce ne son state altre in cui ho dovuto subire e tacere, nonostante mi sentissi vittima di ingiustizie, rimandando le mie ragioni a momenti migliori o invocando il proverbio cinese, quello del cadavere nel fiume. Sono sopravvissuta? Direi di sì. Porto traumi? Direi di no. E non perchè sia una donna de fero, tutt'altro, o perchè reputi giuste certe reazioni: sono la prima a condannarle e a guardarmi bene dall'applicarle, ora che sono passata dalla parte di chi, ai tempi, si era potuto permettere certi eccessi. La trovo una questione di rispetto: del ruolo che rivesto e di me stessa, ancor prima che delle buone maniere. Oltre che di chi ho di fronte, ovviamente. Ma da qui a pensare che i miei interlocutori abbiano usato metodi neonazi, ce ne passa. Di loro ho pensato che fossero dei gran maleducati, degli arroganti, degli irosi o dei frustrati, a seconda dei casi: ma nulla che sconfinasse oltre il limite di un comportamento illegale o illecito.
Il punto è che fra il mondo reale e il mondo perfetto ci son delle differenze. E finchè ci tocca vivere nel primo, ci tocca attrezzarci, magari iniziando anche a metterci del nostro, in termini di attenzione a quello che si fa, di rispetto, di umiltà. A non chiamare i propri superiori con il nome di battesimo, a non rivolgersi a loro con la confidenza che si riserva agli amici, a reagire con la sicumera di chi, per il fatto di essere stato ammesso a far parte di un talent, si sente come l'incarnazione di Escoffier: questi, li metterei a posto pure io, che di cucina ne so tanto quanto basta per non partecipare alle selezioni del programma. Neonazi inside o solo voglia di buone maniere?
Il punto è che fra il mondo reale e il mondo perfetto ci son delle differenze. E finchè ci tocca vivere nel primo, ci tocca attrezzarci, magari iniziando anche a metterci del nostro, in termini di attenzione a quello che si fa, di rispetto, di umiltà. A non chiamare i propri superiori con il nome di battesimo, a non rivolgersi a loro con la confidenza che si riserva agli amici, a reagire con la sicumera di chi, per il fatto di essere stato ammesso a far parte di un talent, si sente come l'incarnazione di Escoffier: questi, li metterei a posto pure io, che di cucina ne so tanto quanto basta per non partecipare alle selezioni del programma. Neonazi inside o solo voglia di buone maniere?